Dhaka, Bangladesh, 24 aprile 2013.
Alcune foglie vorticano nel cielo nero carico di pioggia. Spinte dalla brezza compiono semicerchi intorno ai mostri di pietra. Torri, edifici, palazzi svettano nel deserto di cemento. Vuoto e pesantezza riempiono Dhaka, la capitale industrializzata di una Repubblica dimenticata. Il Golfo del Bengala culla le speranze di questo Stato, figlio della corruzione e del capitalismo, terra dello zucchero, della juta e delle multinazionali. L’ India ne accarezza i confini, lo circonda su tutti i lati; una mano che dolcemente custodisce questo diamante prezioso: il Bangladesh. All’altezza della città c’è il delta di un fiume. Il Gange, illuminato dalle luci artificiali, scorre facendosi largo tra le case di fango, mentre il vento soffia la musica amara di uno strumento a singola corda. Il suono di un Ektara riempie la sera di note melanconiche, tristi melodie che suonano il silenzio di una catastrofe. Non ha più niente, ha perso tutto, Fakir, il suonatore di Ektara, in questo giorno di aprile. Le sue lacrime sgorgano silenziose annebbiando gli occhi. Milleduecento cadaveri di donne e uomini sono stesi davanti a lui. Milleduecento file e colonne scientificamente ordinate. Fakir, il musicista, il perdente, cammina verso le macerie di quella che ieri era una fabbrica, si ferma all’inizio della distesa di teli bianchi beffardamente lucenti in questa sera lugubre. Lui conosce la posizione esatta, scosta il lenzuolo e con una mano tocca il viso di una donna. Stringe il corpo tra le mani e le bacia le labbra. Il sapore di sangue penetra nella sua anima. L’odore della morte gli riempie le narici. Il pianto scivola sulla sua anima fatta a pezzi. Una mano tagliente gli stringe le viscere, lasciandolo agonizzante sul terreno. Lui continua a suonare per Pakhi: la sua donna, il suo amore, la sua vita. Nella notte si distinguono echi di parole nell’aria, taglienti come pugnali. Il vento si fa più forte e i vocaboli più nitidi: sono le urla della sua amata che canta un inno all’odio e alla vendetta.
Lavoravano per la New Wave Style, Pakhi e sua figlia Latika. Questo era la New Wave Style: un’azienda tessile che produceva capi d’abbigliamento da piazzare sul mercato europeo. Il Bangladesh fa spuntare macchine da cucire ovunque ci siano un metro quadrato di spazio e persone da opprimere. Ci andavano tutti i giorni al Rana Plaza, la fabbrica della New Wave Style. Edifici come il Rana Plaza e aziende come la New Wave Style non sono nient’altro che simboli di questo paese, ce ne sono a migliaia, e migliaia ne sorgeranno e migliaia ne cadranno ancora. Lavoravano settecentoventi minuti al giorno, la madre e la figlia, insieme ad altri millecinquecento operai. Regalavano ore di lavoro. Ore di schiavitù. Ore di vita. Per quaranta dollari al mese. Niente pause, niente sicurezza. E Il Rana Plaza era costruito su un terreno paludoso. Paludoso. “Sig. Capitalista, lei deve lasciare il palazzo oggi stesso perché la struttura è inagibile: deve sospendere la produzione”. Il consumo e il profitto non possono essere sospesi, sciagurati! Ma milleduecento vite sì. Sospese per sempre. I morti stavano curvi sul banco da lavoro da quattordici ore consecutive prima che l’edificio crollasse. Uccidendoli. I mattoni del culto del lavoro e del profitto sono caduti furiosamente sulle loro teste, distruggendo persone che non hanno mai sorriso, seppellendo storie che mai saranno raccontate. 24 aprile 2013. Questa data viene archiviata in un passato mai esistito, scrivendo un’altra pagina di un libro mai letto: la storia degli oppressi.
Brescia, un giorno qualsiasi,
di un ennesimo anno di merda,
più merdoso degli altri,
(forse)2013.
Tutto quella birra. Tutta quella grappa. Tutti quei liquori. Sopra il tendone c’è una sigla. Bau: birreria antagonista universitaria. Tre vocaboli un po’ estrosi per dirti che ragazze, forse scopabili, spillano birra infima a poco prezzo. Dopo cinque birre te ne innamori di sicuro, delle birre dico, ma forse anche delle ragazze. Birra e ragazze. Due motivi per andarci e per ridurmi uno schifo, per continuare a distruggere me stesso e questa vita che qualche stronzo mi ha dato. Manco gliela avessi chiesta. Vado in bagno, cerco di pisciare, ma il cesso non smette di spostarsi a destra e sinistra: faccio una fatica boia a centrarlo. La macchina è in moto. Mi mancano sempre dei pezzi di vita, quando bevo. Ma forse non è così importante. Dove cazzo sono? Sono ancora sbronzo. Sono sbronzo, ma non so dove. Non riesco a capire dove cazzo sono. Mattonelle bianche. Sta arrivando ancora lei: si fa vedere poche volte quando sono imbottito d’alcool. Stasera è una delle poche. La testa inizia a girare e il soffitto mi sta schiacciando in terra. Sento la sua voce che mi chiama. È arrivata. La rabbia mi fa ansimare. La confusione mi deprime. “Michele?”. Eccola! “Che cazzo vuoi?!”. Non capisco dove sono. “Cosa vuoi ancora da me?” “Ti sei fatto una splendida vita, Michele, quasi te la invidio. Sempre a sbronzarsi e far danni. Sei il peggio di questa società”. Mi sputa addosso. Lei è sempre quella giusta. Mi guarda sprezzante. Mi sta facendo incazzare. Come al solito non riesco a vederle le gambe. Questo viso mi sta distruggendo. Ha il volto di una ragazza dalle trecce castane. Mi bacia. Sono in lei. Lei mi possiede. Mi toglie all’improvviso. Mi spinge via. Mi spinge sotto la superficie dell’acqua. La sua mano mi sta portando a fondo, ancora una volta, sempre più giù. Non riesco a risalire. Mi tiene sott’acqua. In bocca sento il sapore del cloro. Non respiro. Affogo in un’agonia senza fine. Panico. È qua vicino a me. Ha il volto di mio nonno mentre muore e lo sfintere gli si allarga: il contenuto intestinale si svuota sul lenzuolo bianco. Ha le sembianze del mio cadavere durante la mia veglia funebre. È terribile vivere con lei accanto. Un supplizio infinito. Ha una voce soave e distruttiva: “Michele, sei un eterno perdente, un danno per la società e per tutto quello che ti circonda. Un ubriacone schifoso. Quella troia di tua mamma si è messa d’impegno per cagare fuori uno stronzo grosso come te”. M’incazzo. Vibro due pugni in aria. Uno lo mando alla cieca verso il suono delle parole, l’altro dritto sulla figura. Sento sangue in bocca. Vedo lo specchio del bagno che si frantuma in mille pezzi. La mia immagine in pezzi. Ma lei no: lei è in me. Mi prende il collo e stringe. Non ce la faccio più. Gocce di pianto scivolano via. Gocce di sangue bagnano il pavimento. Gocce di rabbia e di odio solcano per sempre il mio viso. Non ce la faccio più! Ti prego, esci! Esci dalla mia testa! La nausea continua a salire. Un altro mio pugno mi colpisce alla bocca dello stomaco. Vomito. Cado sfinito in terra, nella pozza. Mi rialzo tremante. Continuo a urlare. Il rumore squarcia la stanza. Non so dove sono. Quanto mi manca? Quanto mi manca? Dove sei morte? Ho paura di morire, sudo, non so più dove stare, dove scappare. Corro. Mi insegue. Urlo disperato. Stringe. Non mi lascia. Ossigeno! Ossigeno! Ossigeno! Ho bisogno di tempo! Dammi Tempo! Ti prego, Tempo! Ho paura! Non riesco a respirare! Lame mi trafiggono la testa. Una fucilata mi trapassa lo stomaco. Sento un coltello infilato nel torace. Un laccio mi stringe il collo. Continuo a colpirmi. Corro da una parte all’altra della stanza. Il cuore brucia nel petto, batte a un ritmo ossessionante, vuole bucarmi lo sterno. Le arterie fanno scoppiare le cellule di panico e disperazione. La paura mi tiene il collo stretto in una morsa. C’è mai un’uscita? C’è mai stata? Basta! Ti prego, Basta! Le mani mi schiacciano la testa, facendomi piangere dal male. Il vuoto mi sgretola le ossa. Sento freddo. La voglia di morire mi lacera lo stomaco. Fammi scomparire, subito, per sempre. Buio.
È finita, ma ritornerà, è durata solo una notte. Me la sono cavata piuttosto bene: qualche taglio sulla mano, un livido sotto lo zigomo, e una casa da buttare nel cesso. Questa è la mia vita: giorni passati chiuso nella mia stanza senza nessuna voglia di respirare. L’ansia mi tiene legato al pavimento, mentre il panico mi prende a calci. Adesso ho bisogno di mangiare, ma soprattutto di uscire a prendere aria. Chino sul caffè penso a quei mesi appena trascorsi, stupendamente tragici. Il tempo mi ha regalato la sensazione di appartenere a una donna, la prima volta nella mia vita, forse anche l’ultima. Il ricordo di lei rivive nei pensieri: quegli occhi orientali disegnano il mio sorriso. Il colore del viso di quella donna dipinge i miei sogni. I capelli castani cadono sul mio petto mentre stesa nuda sul mio corpo continua a baciarmi. Sento il suo calore mentre la sua bellezza mi chiama…
Un deficiente irrompe al bar interrompendo il mio flusso di pensieri e inizia a sbavare dietro a una delle due bariste. Sento un impulso irrefrenabile di prenderlo a pugni. L’odio mi riempie le guance di un rosso acceso. Le sue parole sono fastidiose. Intanto sento che qualcuno mi ha posto due volte la stessa domanda. L’altra ragazza mi guarda in attesa di una risposta. La prima cosa che vorrei risponderle è di farsi i cazzi suoi, ma la voglia di metterlo tra le sue tette mi fa stare al gioco del “racconta la tua vita”. “Michele, giusto? Cosa fai? Studi?” Parliamo per un’ora circa, lei studia economia e lavora in questo bar. Si mette a farfugliare qualcosa riguardo alla mia università. “Medicina ha degli esami difficilissimi, ma studi tanto?” Mi ripete un’altra volta la domanda, però la mia mente è focalizzata sul suo culo. Il suo buco è perfetto per una leccata. Sarà sicuramente molto stretto e pulito: sembra una di classe, lei. Perdonatemi, ma non scopo da tempo. L’ultima: una biondina di cui non ricordo nemmeno il nome. Esco finalmente da quella prigionia di banalità. Ritorno a considerare la mia vita di merda. Cammino per strada continuando a morire a ogni passo. A volte mi sento uno schifo, la consapevolezza di star conducendo un’esistenza vuota mi colpisce a mazzate in faccia. Sono solo momenti, solitamente non me ne frega proprio un cazzo di cambiare me stesso, né la mia vita né il mio mondo di macerie. Vado avanti per la mia strada, ho imboccato la via dell’autodistruzione, la scelta più semplice: smettere di scegliere.
La mia stanza in affitto puzza di una pulizia che non è mai stata fatta. Sulla scrivania c’è il libro di anatomia, mai aperto, in terra chiazze di vomito e preservativi usati. Sul comodino ci sono riviste porno (perdonatemi, ma sono ancora all’antica), pastiglie di xanax e paroxetina e un libro di Celine. Le casse da quaranta watt berciano un suono rabbioso. Alzo il volume e le parole di “Alba” degli Skruigners tormentano la mia angoscia: “Col sole negli occhi/ Buongiorno vattene via/ Non ho voglia di niente/ Non conosco nessuno/ E tu non conosci me/ Alba quando tutto finisce/ Sogni dipinti a metà/ Mille domande/ Questo senso pesante di vuoto…”. È da troppo tempo che non mi scrive: Gmail mi fissa quasi a chiedermi: ma che cazzo guardi? La speranza lascia spazio allo sconforto. Ormai sono passate due settimane dacché non mi scrive. Come mai? Giorni che non la sento… sono giorni d’inferno. Mi ero innamorato, a Dhaka. Ritorno sul letto. Sto fissando il soffitto da troppe ore. Anche la mia vita è spoglia e bianca. Mi alzo, abbasso la musica e accendo la televisione sulla BBC. Sì, a volte anche io ho una sborrata di vita nel mio figa di mondo. Mi piace il telegiornale inglese, quello italiano non lo guardo mai invece. Non è un fatto di qualità di notizie, ma solo che preferisco Kate a un nano schifoso di ottant’anni. Questione di gusti. Gli italiani sono gerontofili, io invece sono per le giovani. No, io non mi sento italiano. No, non sono nemmeno un ribelle, troppo codardo. Solo che non ho mai capito perché si uccide la propria dignità per glorificare tre colori messi in fila. Nossignori, non l’ho mai capito. Ascolto distrattamente le notizie: non me ne frega un cazzo di quello che dicono, forse. Una parola, ma non so quale, attira la mia attenzione. Una fabbrica di tessuti è crollata, uccidendo mille operai. Non capisco: sono caduti dei mattoni sulle loro teste uccidendoli o erano già morti prima? Questo, per me, è sempre stato un fottuto problema: non riesco mai a capire quando le persone muoiono. Io lo sono già da quattro anni, da quando ne avevo diciotto. Ma forse già da quando ero nato. Bangladesh… Bangladesh? Ho capito bene? Mi alzo in piedi e guardo le immagini. Sì, quella è proprio Dhaka. Sono stato sei mesi nella capitale: un progetto dell’università mi ha portato lì, in quell’oceano di povertà. Ascolto: “The Rana Plaza, an eight-story commercial building, is collapsed…”. Oh Cazzo, no. I miei occhi dipingono sulla parete i lineamenti di Latika. Sì, quella è l’unica donna a cui appartengo. Lei non può essere morta! Nella mia testa esplodono i suoi colori e le sue parole. Ho conosciuto lei, in quella città, ci ho ballato insieme. Me lo ha fatto conoscere lei, il paradiso. Un brivido mi percorre la spina dorsale. Nessun nome, milleduecento persone anonime. Persone? Come non esistessero. Forse siamo troppi, di perdenti, per scriverli tutti sempre, No? Siamo nella società di massa, no? Niente compassione, anche tu sei un perdente. Tutti lo siamo. Anche di te alla fine non rimarrà che una bara di legno. Vuota. Non siamo niente in vita e niente neppure da morti. Sto delirando, scusate. Ho bisogno di un volo per Dhaka. E di alcool. Per fortuna per ubriacarsi serve ancora andare al bar, non bastano un paio di click. Esco.
Dhaka, Bangladesh.
Vivo negli occhi di una ragazza,
che mi ha cambiato la vita.
Per sempre.
Michele sta seduto su un muretto, accanto a lui il suonatore di Ektara piange. Piangono insieme, seduti sul cemento. L’alba infonde tepore. Forse il sole ha deciso di concedere qualche speranza al vuoto di solitudine che li avvolge. A volte le parole non servono: stanno ore seduti a guardare le macerie del Rana Plaza. Contemplano la distruzione delle proprie vite. Due diverse macerie: di diverse motivazioni, ma pur sempre vite in rovina.
Le sue Etnies mezze rotte percorrono i corridoi dell’ospedale della capitale. Gli occhi passano in rassegna un luogo che è davvero una feccia. Ma il cuore è pieno di felicità. La vita per una volta gli sorride. Ma è merito suo? No, certo che no. Lui ha mai fatto qualcosa per cambiarsi? Per cambiare la realtà in cui vive? No, certo che no. Si mette in ginocchio sul pavimento d’ospedale accanto a lei. Lacrime brillano sulle guance di Latika. Lei lo ama davvero, forse lo conosce ancora poco, ma sicuramente lui è poco normale. Latika ha perso la madre, ma non ha perso la voglia di vivere. C’è qualcosa di nuovo in lei. La rabbia le fa vibrare la voce quando racconta ciò che è successo. Ha imparato ad odiare. Si scaglia con ripugnanza feroce contro la sua oppressione: hate, revolt, culture, study, organization, strike, occupation. Michele afferra le parole, che si susseguono con un ritmo forsennato. È cambiata Latika. Ha il coraggio dentro di sé e vuole uccidere coloro che le hanno tolto la madre e anni di vita. Vuole lottare per i suoi diritti. La vendetta e la rabbia le fanno agitare le mani.
È stanca: il fisico non le permette di parlare per così tanto tempo, e dopo un paio d’ore si sdraia sul letto. Sono le parole più semplici che possono cambiarti la vita. Lei guarda quel ragazzo, che le sta davanti, che le tiene ancora la mano. Lo bacia sulla fronte e lo accarezza. Avvicinando la bocca al suo orecchio, una domanda scivola dalle sue labbra. Le parole suonano un canto d’amore. Un sussurro diventa un gancio di Tyson che lo colpisce in pieno volto: “ehi Mike, When do you stop destroying yourself and start fighting next to me?”
[IL PERIS]