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parole di odio in libertà per chi davvero se le merita

GIù LE MANI DA BARTLEBY!

Bologna, martedì 23 gennaio, ore 8.

Una tranquilla mattinata di lezioni universitarie, ma non per tutti.

Studenti, artisti e precari del collettivo Bartleby sono già in strada a protestare, a lottare per ciò per cui hanno lavorato sodo, per ciò in cui credono.

bartleby

Per oltre un anno, nel 2009, il collettivo ha dovuto far fronte a più sgomberi della loro prima occupazione, e dopo numerose rioccupazioni dello stabile dell’università in via Capo di Lucca, il rettorato ha concesso loro un altro edificio in via S. Petronio Vecchio dove, da allora, l’attività politica e culturale è stata intensissima e ha dato un forte contributo alla vita universitaria bolognese.

Concerti, reading, dibattiti, progetti di autoformazione e tante altre attività hanno per 3 anni reso florida la vita del collettivo, fino a martedì.

Fino a quando il rettore Dionigi ha deciso che non c’è più posto per loro nella sua università, fino a quando il consiglio comunale ha intrapreso una vera e propria campagna di sgomberi nel centro della città.

Una dichiarazione di guerra a chi produce politica e cultura in forma indipendente, a chi costruisce percorsi di autonomia e di autogestione, a chi sperimenta nuove forme di espressione e di trasmissione del sapere, a chi si organizza collettivamente per rispondere a un crisi economica che ci spoglia ogni giorno dei nostri diritti. Per queste esperienze in città non c’è spazio.

Così, martedì mattina, dopo mesi di minacce di sgombero, dopo il rifiuto da parte del collettivo di spostarsi in una zona industriale troppo lontana dal centro della vita della città, dei bravi e ubbidienti soldatini hanno esaudito il desiderio di rettore e sindaco murando la porta dietro cui per anni tante persone hanno lavorato per offrire cultura, svago, e contenuti politici a questa città.

Chi offre cultura come vero e proprio diritto alla persona non può esistere.

Ma lotta per poter esistere.

Via Zamboni blindata da camionette per l’intera mattinata, il rettorato presidiato dalle forze dell’ordine.

Ed in via S. Petronio Vecchio, resa  inaccessibile persino agli abitanti, la polizia inizia a caricare i manifestanti che tentano di riprendersi la loro sede e che, forti delle loro intenzioni, non indietreggiano nemmeno di un passo nonostante i ripetuti attacchi dei militaruncoli.

Ma niente da fare, il Bartleby è off limits.

Così il collettivo si organizza e nel pomeriggio occupa un’aula della facoltà di lettere e filosofia dove per 2 giorni si sono fatte assemblee pubbliche, dove si è lanciata una manifestazione per sabato 26 gennaio.

PARTIRE DAL BARTLEBY PER RIPRENDERCI LA CITTA’.

Perché non ci stiamo a vivere in una città vetrina, desertificata e cristallizzata.

Perché c’è chi mura le porte e chi le apre. Chi si chiude nel vuoto delle proprie stanze e chi invece pensa che la partecipazione sia una pratica quotidiana, non una parola da spot elettorale.

Dissotterriamo le asce di guerra.

Riprendiamoci il Bartleby.

Per riprenderci i nostri diritti.

Per riappropriarci della nostra cultura.

Per rivendicare la nostra libertà.

[La Valeria]

GIUSTIZIA PER PAOLO!

Venerdì 18 gennaio un’audace spedizione camuna si è spinta fino a Verona, all’udienza finale di primo grado del processo verso otto poliziotti, accusati, in un pomeriggio del settembre 2005, di aver pestato, ridotto in fin di vita, causato un’invalidità permanente a Paolo Scaroni, ultras e tifoso del Brescia.

sbirri

Arriviamo nel parcheggio del tribunale verso le 14.00 ed il colpo d’occhio di sciarpe e striscioni è subito piacevole, tra i vari colori di milanisti, salernitani, veneziani, atalantini, doriani, leccesi, e poi ancora tifosi di Savona, Saint’Etienne, Fortitudo basket e altri che, tra le 600-700 (a stima casuale) persone presenti non abbiamo riconosciuto. Giusto il tempo di salutare qualche amico qua e la che, verso le 14.30, i nostri brontolanti stomaci ci ricordano di come un camuno medio solitamente pranzi verso mezzogiorno, quindi, passate le due, è giunta anche per noi l’ora di mangiar qualcosa. Ingoiamo una pizzetta al bar di fronte, una tale “bottega degli antichi sapori italici”, che poco aveva di gustoso prodotto nostrano e dove probabilmente non rivedranno più cosi tanta gente, almeno fino a quando gli scaligeri non intenteranno un processo contro Justin Bieber. Ritorniamo al tribunale giusto in tempo per spostarci nel piazzale interno: non so come sarebbe stato fare l’attore, certo è che il dispiegamento di telecamere in mano alla digos ci fa sentire più a Hollywood che a Verona. L’usanza è abbastanza inconsueta per un palazzo di giustizia (ci riprendono uno a uno dalla testa ai piedi, carta d’identità compresa), tant’è che addirittura il Bresciaoggi, non proprio un giornale di ultras o compagni sovversivi, mette in risalto la stranezza e l’inutilità provocatoria di certi gesti. L’attesa per la sentenza è lunga, la camera di consiglio dura più di due ore, il freddo abbastanza pungente e il sole pian piano decide di lasciarci, così cerchiamo di scaldarci e far passare il tempo alternando chiacchiere qua e la, una buona dose di raffinata ignoranza e pure qualche analisi economica sull’aumento dei tassi d’inflazione, da buoni ultras letterati quali siamo. Ci accorgiamo subito che quest’argomento non è dei più adatti, proviamo quindi a capire come potrà essere il verdetto, come mai ci mettono tanto per giudicare, che idee s’è fatto l’avvocato. E la voce che va per la maggiore è negativa. Verso le 17.30 ecco arrivare la sentenza, che noi ovviamente non possiamo sentire visti gli impedimenti di entrare nelle aule. L’apprendiamo quando uno dei pochi ragazzi che hanno assistito se ne esce urlando “bastardi, gli hanno assolti tutti”. Gli Ultras, si sa, non sono proprio degli angioletti, perciò, quando la sentenza è definitivamente confermata, si sente la rabbia crescere in tutti i presenti. Si sente l’odio nelle grida che si alzano, negli animi irrequieti della gente. Penso che ogni persona in quel piazzale non avesse aspettato altro che entrare nelle aule e gridare lo sdegno e lo schifo per questo vergognoso responso. Se possibile, visto che si sa, gli ultras non sono angioletti, anche prendere a sberle un cazzo di giudice che ovviamente ha dovuto proteggere i suoi cani da guardia. Gli animi ormai caldi vengono però stemperati dalle parole del padre di Paolo, dalla sua volontà di non fare nessun tipo di casino, di non prestare il fianco a facili strumentalizzazioni, di rispettare il dolore suo e della sua famiglia. Quella famiglia che è sempre stata vicina al mondo ultras in questi anni, quella famiglia di cui rispettiamo le richieste. Seguiamo tutti Paolo verso l’uscita, scandendo qualche coro come “vogliamo solo giustizia” o “la disoccupazione…”. Si risalutano qua e la i vari amici e se ne torna alla macchina, con tanta delusione e amarezza. Gli imputati sono stati assolti con dubbio, poiché dalle telecamere di sorveglianza mancano i dieci minuti di video in cui è successo il fattaccio. Il magistrato chiede di ricercare quelle immagini “andate perdute”, e non mi viene neanche da rispondere. Forse Guccini avrebbe dovuto cantare certo ci sarà sempre lo sapete, un musico fallito, un pio, un teorete, un MAGISTRATO o un prete a sparare cazzate. Ora si aspetteranno sessanta giorni per le motivazioni della sentenza. Ma si può facilmente intuire come uno stato non possa accusare (e se lo fa è sempre e comunque in maniera lieve) quei corpi che garantiscono la sua stessa sopravvivenza. Come abbiamo visto con Aldrovandi, con Cucchi e con tutti gli altri, lo stato non si punisce. Gli ultras invece sono parte marginale della società, e cosa importa se ogni tanto ne muore qualcuno, se uno finisce in coma, se qualcuno a caso viene accusato per farsi belli con l’opinione pubblica. Sono i reietti, gli esclusi, come un tossico, un ubriaco che barcolla alle quattro del mattino, uno che non santifica le feste o che lancia due sassi in Val di Susa. Gli ultras sono gli emarginati, che non si vedono al grande fratello o da Bonolis. Non sono i tranquilli litigiosi dei talk show. Gli ultras che, nonostante tutti i limiti che hanno, cercano ancora aggregazione, valori, socialità.

La giustizia non passa per le aule dei tribunali, ma questo già si sapeva. Lo stato non tutela i nostri interessi, ma anche questo già lo sapevamo. ACAB!

 

Giustizia per tutti i ragazzi vittime di uno stato criminale e assassino. Vittime di uno stato che difende solo padroni, borghesi e i loro cani da guardia.

GIUSTIZIA PER PAOLO!

 

[Il Faust]

 

 

 

 

IL 6 DICEMBRE A BRESCIA (cronaca di una giornata in piazza)

Il sei Dicembre 2012 in ogni città italiana prosegue il percorso di lotte sorto dall’indignazione di migliaia di studenti in tutt’Italia.


Il sei Dicembre 2012, ancora una volta, decido di scendere in città per manifestare il mio assoluto dissenso nei confronti di un sistema nazionale che, troppo impegnato a sostenere opere pubbliche inutili, spese militari e vomitevoli stipendi di funzionari pubblici, non si interessa dell’istruzione, del futuro e della cultura di un’intera generazione. Sono le sei e cinquantacinque, salgo sul treno di Valle Camonica. Terza Carrozza.
Mi aspetta una lunga giornata ma le tre ore complessive di treno non mi spaventano.
Incontro alcuni compagni e grazie a qualche chiacchierata in allegria le otto e venticinque arrivano velocemente. Scendo dal treno e intraprendo il solito percorso fino a Piazza Garibaldi, luogo di ritrovo della manifestazione. Con un certo stupore mi accorgo che il numero complessivo di persone presenti è inferiore rispetto alla precedente manifestazione; mi ricredo quando vedo un centinaio di liceali della zona raggiungerci.
Il ritrovo iniziale durante ogni manifestazione è sempre un momento piacevole; si salutano i compagni, si organizzano le idee e ci si scambia opinioni.
Noto con piacere che oltre ad un gran numero di studenti è presente un gruppo di compagni più anziani.
Vedere due generazioni differenti manifestare insieme è sempre una grande soddisfazione; dimostra che le lotte studentesche, per quanto siano snobbate dall’opinione pubblica,  non sono solo importanti per gli studenti, ma sono altresì importanti per tutti coloro che vogliono credere nei giovani che rappresentano il futuro di questa nazione.
Realizzo con altrettanto entusiasmo che anche la componente giovanissima è presente, ed è decisa quanto gli altri. Mi colpisce particolarmente una ragazza vista ad ogni manifestazione: Quindici anni di energia ed entusiasmo allo stato puro. Parlare con lei prima di ogni corteo è sempre motivante e piacevole.
Sono le nove e quarantacinque. Un po’ in ritardo rispetto alle previsioni si parte.
L’obbiettivo della giornata è quello di raggiungere il provveditorato per rivendicare il milione e mezzo destinato agli studenti bresciani ma mai arrivato.
Sono ancora vividi nella mente di tutti i ricordi delle azioni violente della polizia il quattordici Novembre; Manganellate sul futuro, calci addosso alla cultura e percosse contro gli ideali.
Questa volta non ci stiamo; Ci organizziamo con scudi di cartone sui quali sono rappresentati titoli di alcuni famosi libri (I famigerati “book block”) e molti di noi si sono portati i caschi del motorino da casa.
La camminata si prospetta lunga, Monpiano è molto lontano.
Facciamo tappa dopo qualche centinaio di metri al “Liceo Calini”, istituto recentemente occupato che sta intraprendendo un percorso di autogestione. Invitiamo gli studenti a svuotare le aule e ad unirsi a noi in strada; qualcuno ci segue, la maggior parte resta a scuola. Alcuni insegnanti si affacciano alle finestre e ci lanciano occhiate di disgusto e disprezzo, anche se gli obbiettivi che vogliamo raggiungere sono anche di loro interesse. Mi chiedo a cosa sia dovuto un atteggiamento di questo tipo. Penso ad una famosa frase di Marie von Ebner-Eschenbac, nota nobildonna scrittrice austriaca: “Gli schiavi felici sono i nemici più agguerriti della libertà”. Scrisse questa frase nel tardo ottocento “dall’altra parte della barricata”, ma quanto aveva ragione?
Proseguiamo il corteo. La tappa successiva è presso l’Aler dove le istituzioni hanno pensato di “tutelare l’ordine pubblico” predisponendo all’entrata una decina di agenti in assetto antisommossa. Temono evidentemente un nostro tentativo di occupazione. Sanno che siamo gli unici veramente vicini al problema degli sfollati, sanno che siamo gli unici a mobilitarci seriamente cercando di risolvere il problema (Hotel Sirio Occupato) e sanno anche che non permetteremo che a fine Gennaio si verifichino nuovi sfratti (già previsti). Facciamo presente agli individui presenti tutto ciò e proseguiamo il corteo.
Prima di raggiungere il provveditorato cerchiamo di spingere a mobilitarsi anche gli studenti della facoltà di Ingegneria in Via Brande, facendoci sentire dalla strada. In pochi si aggregano.

Ci avviciniamo all’obbiettivo. Pur mantenendo una linea pacifica alziamo gli scudi, mettiamo i caschi e formiamo i cordoni, considerando l’attitudine violenta dimostrata in più contesti dalle forze dell’ordine bresciane. Arriviamo nei pressi del provveditorato. Nonostante fosse stato stabilito che il corteo sarebbe terminato al cortile dinnanzi all’edificio le forze di polizia ci bloccano. Non ci sono scontri, ma la situazione è piatta. Il pensiero della maggior parte di noi è quello di non accettare nessun tipo di delegazione, ma di fare dietro-front. Torniamo al centro storico, ci dileguiamo.
Si conclude così un altro giorno di lotta nel contesto bresciano, un giorno che porta con se i suoi aspetti positivi ed alcune piccole amarezze.  Ora più che mai è importante portare avanti nuovamente un percorso di lotte e di sensibilizzare tutti su questi temi fondamentali per la collettività.

Ugo

#14N La mia vita in un giorno di lotta

Dalle finestre della mia camera in affitto filtra la luce flebile di un cielo mattutino decisamente uggioso,  apro la finestra e l’aria, pregna di umidità e pioggia, mi fa prendere coscienza che oggi c’è proprio un tempo schifoso. Io non sopporto le nuvole di mattina: fanno cominciare già di merda una giornata che di merda sarà già di suo. Chiaramente le nuvole sono solo un corollario: la mia serotonina è già in difetto comunque,  a prescindere dai colori di ciò che mi sta sopra. Solo una donna  può farmi tornare il sorriso nei miei momenti  costantemente in down , non una qualsiasi ma soltanto Lei, solo i suoi occhi, solo le sue labbra. Bagno il mio viso con acqua fredda, e intanto la mia coinquilina sta bussando e in questo mentre mi sta tirando una splendida filippica sulla mia necessaria e obbligata presenza  al progress test(un test  di 6 ore che non conta una beata fava, che non ha nessuno scopo e nessun significato). Odio gli obblighi. Odio i test. Oggi è il 14 novembre, è un giorno di mobilitazione, sacrifico me stesso e  scendo in piazza per dire che questa società mi sta un po’ stretta. Ho ancora la capacità di sognare, ho ancora la voglia di sperare, non imparerò mai a obbedire a nessuno, se non alla mia ragione, punto di partenza: Piazza Garibaldi, punto di arrivo: infinito. Le manifestazioni  possono essere vuote, a volte sono piene, possono bloccare merci, possono scalfire l’indifferenza, ma rimangono comunque e  sempre delle tappe lungo un viaggio: c’è sempre un prima, e un durante  ma soprattutto un dopo. Si lanciano sassi rompendo vetrine, ma da quegli spiragli di luce che stiamo aprendo, prima o poi, è meglio che ci entriamo.  Prendo posto sulla filo che mi porterà in stazione, e intanto incrocio le dita sperando che non salga nessun controllore: ho lo stesso biglietto da un paio di mesi. Ma non è il fatto  che non voglio pagarlo, è che mi sta sulle palle tutto ‘ste usaegetta di carta. Speriamo comunque che non ci sia perché sennò : “vagli a spiegare te a quello la tua morale filoambientalista”.  Passiamo di fronte allo stabilimento Iveco e qui gli operai sono già in fermento e occupano la strada. Intanto i miei pensieri corrono veloci, e senza sosta e tornano alla decisione di scendere in piazza. La Grecia, la Spagna, L’Italia, il Portogallo in recessione schiacciate dall’austerità, migliaia di persone che perdono il posto di lavoro, altre migliaia non lo trovano. Stipendi da fame costringono persone a vite misere e a imbottirsi di ansiolitici. La sanità pubblica sta per essere distrutta, il diritto allo studio è un miraggio, la pensione e  la casa pure. Il capitale ha fatto di sua proprietà anche l’esistenza delle persone, e  Omnia Sunt Communia è ancora una frase rimasta in latino. La possibilità di fare quello che ami è stata cancellata, e della felicità ormai non se ne parla più da un pezzo.  Da una parte ci sta il diritto alla vita dall’altra il debito. Lo Stato ha scelto il debito.  La Troika ci detta legge, noi scriviamo la storia. Non sono un’economista e non parlo di spread, del loro debito non mi frega un emerita minchia, amo la vita, conosco e pretendo i miei diritti, e odio chi non li rispetta. In una società conflittuale se provi amore fai una cazzata, e l’odio mi possiede in ogni momento, ogni tanto mi drogo per riuscire a sopportarlo(solo droghe legali ndr), ma non voglio che se ne vada,  voglio che scenda con me in qualsiasi piazza andrò, voglio che mi accompagni in tutti i rabbiosi giorni della mia vita. Merda, scusate, divago sempre. Bè lasciate perdere perché intanto il corteo avanza già, le due casse del Magazzino 47 pompano  “Banditi nella sala” a tutto volume, noi camminiamo, io e tantissima gente, e siamo circondati da un fortissimo e piacevole odore di erba, e intanto  qualche sporadica maschera di Guy Fawkes mi sorride. La musica viene interrotta all’improvviso per dare l’annuncio di tre compagni arrestati con l’accusa di blocco stradale, e che verranno processati domani mattina per direttissima, cori e fischi si alzano, due parole sole scandite musicalmente dalla voce di tutti: liberi tutti. Il corteo non si ferma,  si dirige verso la stazione sperando di riuscire a entrarci e saltare su quei cazzo di binari. Alle porte la celere ci accoglie calorosamente  con pesanti manganellate, minorenni tranquillamente pestati, gente portata all’ospedale. E loro superuomini con le narici piene di ccocaina che non hanno altra abilità nella vita che dire sissisignoremipiaceleccareilculo saranno ancora fieri, stasera, di guardare i loro figli negli occhi? Ma soprattutto i loro figli ne saranno mai capaci?

La manifestazione finirà in Piazza Loggia, ci stiamo dirigendo lì, eccola nella sua imponenza, elegante nella sua sobrietà, ci ammonisce sempre di non dimenticare il 28 maggio. La testa del corteo non si ferma però, qualcuno vuole proseguire, in via San Faustino tante persone continuano a camminare verso un meta ancora non chiara nella testa dei più, Kollettivo studenti in lotta e Collettivo Universitario Autonomo  invece sanno bene dove andare, e l’ ex Hotel Sirio si palesa in via Battaglie. Tra Applausi e fumogeni  lo stabile inutilizzato da 8 anni viene occupato, e ridato alla comunità. Qui, con un occupazione e riappropriazione di una futura abitazione per il popolo, termina la piccola e grande storia di un giorno di lotta. Noi,  Studenti e studentesse, e operai  insieme abbiamo rubato un soffio di vita alla nostra noiosa merdosa quotidianità sfruttata provando a gettare il seme per creare qualche cosa di diverso,  di nuovo, in cui i protagonisti siamo noi, nostre sono le decisioni, nostre e di nessun altro le vite che vivremo.  Il sole sta spuntando, le nuvole stanno scappando e io intanto continuo a baciare, Lei.

[ringraizamo del contributo il nostro creativo M.P.]

AUTOGESTIONE

Non è mia intenzione fare di questo breve articolo un pezzo con delle velleità scientifiche. Mi accontento di offrire una definizione estesa (e ovviamente discutibile) di cosa sia un modello autogestionale. Ritengo utile fissare qualche idea in mente ora che siamo all’inizio del percorso dell’Unione Sportiva Stella Rossa perché credo che, per quanto ogni correzione sia possibile in corso d’opera, la storia ci dimostri che le autogestioni con i piedi d’argilla  camminano sempre con passi malfermi.

L’autogestione è la facoltà degli individui, delle associazioni e dei gruppi sociali\etnici, di governare e governarsi autonomamente (cit. Anarcopedia). Il concetto di per sè sembra semplice ma nasconde delle complessità. Definendo  l’autogestione una facoltà di autogoverno non stiamo attribuendo il giusto peso all’aspetto più complesso di un autogestione ovvero le sue modalità. E’ infatti questo l’aspetto che  differenzia l’autogestione da altri sistemi di governo. Come all’interno di un individuo esistono pulsioni e tensioni che confliggono tra loro anche se mirano tendenzialmente al medesimo obiettivo (ad esempio la felicità o l’autosoddisfazione), così all’interno di un gruppo (grande o piccolo che sia) esisteranno interessi, prospettive e priorità che si troveranno inevitabilmente in conflitto anche quando vi è una forte condivisione delle premesse. Ma questa è la scoperta dell’acqua calda: la società è conflitto e così sono le relazioni umane. La negazione dello stesso non equivale alla sua soluzione ma semplicemente alla sua latenza. I veri nodi cruciali della questione sono: a) su quale esigenza nasce questo conflitto, b) come viene gestito, c) che valore qualitativo gli viene attribuito.

a) Detto in modo molto semplice si può litigare per delle cazzate clamorose oppure per delle questioni maledettamente serie. Per evitare di perdere la vita dietro alle minchiate è necessario che un gruppo abbia ben presenti quali sono i valori fondati ed impernianti del gruppo stesso. Intorno a questi è legittimo, necessario e positivo alzare barricate e dissotterrare asce di guerra. Per altre questioni meno fondanti, riconosciute tali dal gruppo stesso, questo atteggiamento spesso è disastroso.

b) La gestione del conflitto è un aspetto fondamentale per ottenere da esso un progresso individuale e collettivo. Che in amore e in guerra tutto sia lecito è una delle tante cazzate che si dicono per far prendere aria alla glottide. Così come i cavalieri medievali, i gentiluomini settecenteschi o i galli da combattimento è necessario anche per i componenti di una realtà autogestita stabilire un codice del conflitto. Una serie di regole d’ingaggio che servano a mantenerlo dentro dinamiche costruttive, senza ridurlo a mera rappresentazione ma consentendo che esso si possa svolgere all’interno di un quadro definito. La rottura di questo quadro di riferimento genera un conflitto di metodo, qualcosa che diviene una nuova fase fondante del gruppo stesso e che allo stesso tempo ha la potenzialità di distruggerlo.

c) La lotta è bella! Provare se stessi sugli altri dà la misura delle proprie capacità. E’ all’interno di uno scontro che si acuiscono i propri sensi, che viene dato fondo ad ogni abilità e se ne apprendono di nuove. Non si lotta per desiderio di sopraffazione, mai. Si lotta per amore di verità. Di una verità dialettica che solo l’esito del conflitto sarà in grado di dimostrare come tale.

Torniamo a noi, anche se in realtà non abbiamo mai parlato d’altro. Un gruppo che si propone di autogestirsi, e questo è più un modello a cui tendere che non un dato di partenza, deve avere nei soggetti che lo compongono la conoscenza, la discussione e il desiderio di miglioramento di queste dinamiche. Diversamente l’autogestione diventa uno schema molto pericoloso: l’assenza di dispositivi di controllo (di potere) permette a chi sa, vuole e può usare se stesso e le sue capacità per la sopraffazione altrui di farlo con relativa semplicità. Spesso, proprio all’interno di contesti che si propongono di autogestirsi, si trovano le più becere dinamiche di sopraffazione di un individuo su un altro. Succede ad alcuni di scambiare l’autogestione per il modello del branco, con relativi maschi alfa che fondano il proprio predominio su un concetto di presunta superiorità e non sulla convinzione in una verità dialettica.

Ho pochissima fiducia nelle persone e moltissima ne ripongo invece in questo gruppo. Credo che sarà capace di affrontare le sfide che si troverà davanti, nella complessa gestione di se stesso e nel perseguire gli obiettivi che sceglierà di rincorrere.

 

VIVA LA KAMUNIA PARANOIKA!

VIVA L’UNIONE SPORTIVA STELLA ROSSA!